venerdì 25 febbraio 2022

Ho copiato le madri

Ho sentito dire che le madri devono sempre perdonare i figli.
La mia voce è strozzata perché mi ha detto che l’ho fatta male, ho fatto una figlia piena di macchie, con la pelle a chiazze come un dalmata. Floriana mi ripete che è colpa mia, ‘mamma la colpa è tua che mi hai fatto così’, dice. 
Ho ingoiato bocconi amari, ho fatto una figlia e nessuno la vuole ma non potevo saperlo. Ha sofferto come ho sofferto io, senza padre da quando era piccola e chissà che fine ha fatto quell’uomo che avevo conosciuto una notte e mi ha lasciato il più difficile dei compiti, vita da madre, perché la colpa non era solo mia ma di entrambi, entrambi padri, entrambi madri, entrambi colpevoli. E la notte sogno che mia figlia riempie il pavimento di feci e io sto male ma son immobilizzata, non riesco ad aiutarla. 

Prima mi arrabbiavo di più con me stessa e con gli altri, mi arrabbiavo di più con Floriana che mi diceva che ero io, ero io che l’avevo fatta così deforme e orribile e io le urlavo contro per spiegarle che non doveva prendersela con me, che io non c’entravo nulla. 
Poi un giorno ho visto cosa fanno le madri, ho visto che perdonavano sempre i figli, che stavano zitte, incassavano il colpo e piangevano in silenzio, non ribattevano, non si ribellavano. Abbracciavano, consolavano, piangevano in silenzio, accettavano tutto, eclissandosi e accettando una condizione di vittime incoscienti, annientando la propria essenza di donne, ingabbiate in un groviglio di emozioni non espresse, mantenendo un volto senza rughe, senza mai esplicitare, travestendosi da mummie, pronte a esplodere per qualsiasi cazzata ma non con loro, non con i figli. E mi sono perdonata, ho perdonato lei, suo padre e me. Il mio cuore è calcificato e le gambe non reggono il mio peso. Non le dico nulla, incasso. Lo farò fino alla morte, quando chissà chi se ne prenderà cura.






mercoledì 24 novembre 2021

Pedaggi

 Dobbiamo costruire sentieri sterrati tutti i giorni, scansare gli alberi e i cespugli, avanzare con le nostre borracce piene di alcool, mentre il coro delle  nostre suonerie ci distrae. Abbiamo le scarpe bagnate e paghiamo un pedaggio ogni cinquanta metri. Arranchiamo, ci fermiamo su un masso a piangere un po’ per poi abbracciarci e asciugarci le lacrime a vicenda, sempre avvinghiati tra una risata e una vampata di calore che ci rassicura sulla strada da percorrere. 

Dobbiamo andare senza arrivare, mentre gli animali ci passano accanto tendendoci le zampe, tentando di distrarci, di separarci. Dobbiamo cercare sempre di rimanere concentrati. Ogni tanto perdiamo le scarpe, ogni tanto crediamo alle parole del bosco, alle parole dei sogni passati. 

Ma non perdiamo mai la pazienza, la precarietà ci tiene in vita senza alcuna pretesa e siamo gelosi dei nostri corpi e delle nostre parole.

Dobbiamo pensare che la mia vita sia nelle tue mani e la tua nelle mie, che ci sono voluti anni di traslochi per trovarci, che mi proteggerai come fai con la tua vita, che avrai paura di perdermi sempre, di rompere tutti gli equilibri. Dobbiamo aver cura di avanzare piano, con la grazia di chi ha avuto cento vite e cento morti prima di noi.






giovedì 11 febbraio 2021

Prima d'ora

 Prima d’ora questo silenzio mi aveva addormentata, cullata nella penombra di un cielo grigio di nuvole monotone e ammassate. Ne era venuto fuori un groviglio di sogni belli e angoscianti, incubi e sogni d’amore, tonni braccati da persone, uccisi con un abbraccio, una stretta soffocante, uomini che picchiano donne, tori che spaccano il muro con le corna e l’angoscia di non poter entrare in casa, un uomo che mi corteggia e mi bacia dolcemente, la voglia di farmi bella per qualcuno che non ricordo. Incubi dolorosi e sogni d’amore. 

Prima d’ora ho letto e guardato serie tv, creato collane, cucinato piatti dolci e salati, dipinto con Dario, ascoltato stupide canzoncine portoghesi. 

Prima d’ora l’immobilità non mi ha minimamente scalfita, mi ha soddisfatta in modo normale, ha alimentato la mia ignavia, la mia pigrizia.

Prima d’ora non ho sentito niente, nessun dolore nonostante la sfilata di carri funebri, volti invisibili coperti da mascherine, mani rese insensibili da guanti, corpi igienizzati senza odore,  solo alcol che sterilizza ogni percezione olfattiva.




Ora invece sento una nausea terribile per la mia vita ferma, per l’assenza di carne e abbracci, una nebbia fitta confonde realtà e immaginazione, la luce rimane imprigionata in un tramonto perpetuo, l’amore è ingabbiato dalla paura, il fumo che esce dai comignoli si è fermato. 

Ho bisogno di svegliarmi. 







mercoledì 11 novembre 2020

Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale


Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale, a Torino, in zona rossa, dove non si poteva uscire e nemmeno entrare. Ero circondata da pareti, nessuna presa d’aria e una coda umana appoggiata alla porta automatica chiusa a chiave e aperta a singhiozzo, a centellinare esseri umani per vedere chi e cosa avevano da maledire questa volta, ad ascoltare il lamento e il dolore di tutti, imitarne per empatia i silenzi e le urla. 

Ero nel mio gabbiotto a  rispondere alle domande dei clienti, immobile sulla sedia a guardare uno spettacolo di disumanità e tristezza, persone invalide, donne incinte e anziani aggrediti perché saltavano la fila. Iniziava così il lockdown, con una rabbia generale che si sfogava contro i pensionati. Iniziava con l’odio per l’altro, perché c’erano le file da fare per comprare il pane, le medicine e le sigarette, c’era la disoccupazione, la cassa integrazione che non arrivava dall’INPS, l’affitto  e il mutuo da pagare, le tasse, l’asilo, la macchina, lo SPID, moduli da compilare online, codici e PIN.

I bar erano chiusi, come anche le palestre, i cinema, i teatri e gli stadi, il coprifuoco iniziava alle 22 ed era proibito ogni  contatto fisico non strettamente necessario. Iniziava con la paura, con il senso di colpa per essere andati a trovare i genitori o aver preso un caffè con un amico. Il lockdown iniziava con l’odio per l’altro, continuava con il senso di colpa.

Proseguiva con la malattia, il lutto. Le distanze enormi e un medico che chiamava una volta al giorno per informare i parenti sullo stato del paziente. Negata la possibilità di parlarci, di salutarlo, di avvicinarsi per una carezza, negati i funerali.  Niente di più difficile da sopportare, separati per sempre col cuore strozzato, senza un colpevole da prendere a pugni. 

Bambini robot che si lavavano le mani in continuazione, che a due anni urlavano 'lockdown!' dal balcone , che quando suonava il citofono si spaventavano e che non capivano perché per mesi non potessero vedere i nonni. Bambini che crescevano con traumi terribili, i cui genitori litigavano perché i papà li portavano a casa dei compagni di classe per giocare, all’insaputa delle mamme che diventavano isteriche e paranoiche quando lo scoprivano. 

Fiumi di antidepressivi e ansiolitici in gocce prescritti dai medici di base, incubi notturni, ansia diffusa e da limbo, come la chiamavano.

Aziende che non facevano i tamponi ai dipendenti, che ignoravano i positivi per paura di chiudere e fare meno profitti, liberi professionisti che inveivano contro i dipendenti pubblici, dipendenti pubblici che inveivano contro gli utenti, giovani che inveivano contro anziani, ricchi contro poveri che percepivano il reddito di cittadinanza. Queste erano solo alcune delle conseguenze della risonanza mediatica che aveva avuto la pandemia, letale per i sani prima ancora che per i malati. 

Nessuno spazio per liberarsi dalla paura, nessun luogo. Non solo non bastavano gli infermieri e i medici per curare i malati, ma nemmeno le forze dell’ordine e i vigili del fuoco per sedare rivolte, risse e fermare atti di suicidio.

Quando il mondo si è fermato io ero in ufficio postale e vedevo i carabinieri a giorni alterni dal mio gabbiotto. Di fronte alle persone esasperate che urlavano perché avevano perso tutto,  le forze dell’ordine mostravano un atteggiamento comprensivo, avevano gli occhi lucidi e sorvolavano anche su fatti sui quali qualche tempo prima avrebbero sicuramente fatto rapporto. Io vedevo esplodere gente per nulla, vedevo micce dappertutto, vedevo paura e rabbia dappertutto.

Avevamo perso il contatto con la vita e la morte, avevamo perso non solo quelle poche vere consolazioni della vita ma anche le poche vere consolazione della morte.

Forse avevamo sbagliato tutto.

venerdì 28 luglio 2017

Infanzia

Avevo uno zaino blu elettrico con la scritta Invicta e passeggiavo con mio nonno e mia cugina per le strade della Noce e i palazzi cadevano a pezzi, lʼaria era sempre ferma e le vie sempre affollate. Iniziavamo la giornata con la treccina che il nonno Mario ci comprava al panificio sotto casa ed era un vero regalo perché quello zucchero sul pane ci restituiva lʼeccitazione di cui avevamo bisogno la mattina presto. Ci accompagnava a scuola e veniva a prenderci anche allʼuscita.
Di tutti i bambini della scuola ne ricordo bene soltanto uno, la mia compagna di banco Carlotta, di cui perfino il nome per me era fonte di ispirazione. Aveva un caschetto lucido nero e due occhi da san bernardo, sapeva sempre tutto e sapeva cavarsela sempre. Pranzavamo tutti insieme, in classe, e la bidella portava una busta per ogni bambino, dentro cʼerano un panino, una mela e un formaggino.
Ricordo il rigore dellʼedificio e le pareti bianche, lʼesterno grigio e un atrio grande dove si teneva la recita di Natale e quella di fine anno con lo spettacolo di tarantella siciliana, Me lo ricordo bene perché fu la prima occasione in cui i miei mi permisero di mettere il rossetto. Ricordo un pavimento di resina lucida nera e un cortile con una sola aiuola piena di cespugli non curati, le foto di classe, il negozio di detersivi e casalinghi che vendeva anche cannoli, il giorno in cui mia madre dimenticò di venire allʼuscita da scuola e aspettai ore nellʼufficio della segretaria, i temi in classe e lʼalbero di Natale allʼentrata, la piazzetta della Noce e via Ruggerone da Palermo, una delle vie più caotiche e vive di Palermo, le vecchiette cariche di sacchi della spesa e i motorini truccati a fare lo slalom tra i passanti strafottenti.
In genere era il nonno Mario che veniva a prenderci allʼuscita da scuola. Io e Gabri ci incamminavamo verso casa lente, in attesa di poggiare i nostri zaini sui sedili della sua macchina. Puntualmente, quando gli chiedevamo dove avesse posteggiato, ci rispondeva ʻqui dietroʼ ma la macchina non la prendeva nemmeno, cʼerano solo venti minuti di strada da casa del nonno alla scuola. Ci prendeva in giro, a lui non piaceva la vita comoda e, arrivati davanti allʼascensore ci vietava di usarlo e ci ordinava di salire a piedi. Scherzava, rideva e ci teneva ben lontane dalla vita facile. Quando arrivavamo a casa la nonna era alle prese con i fornelli, ci accoglieva sempre con odori diversi e , rivolgendosi a Gabri la rassicurava sul fatto che di ogni portata ci fosse un doppione, preparato accuratamente senza glutine e senza contaminazione di alcun genere. Quando ci sedevamo a tavola, davanti a noi trovavamo piatti fondi che a stento contenevano quellʼinfinità di corallini con le lenticchie, le tagliatelle al sugo fresco o le casarecce alla grinta, la sua specialità.
Il nonno aveva le sue posate perché diceva che non tutte le posate erano buone, quindi le aveva segate leggermente sul manico per capire quali fossero le sue. Erano posate come le altre, ma lui diceva che il suo cucchiaio entrava in bocca con maggior facilità e che le posate con il manico di plastica, per esempio, lo mandavano in bestia. Quando veniva a casa mia e mia madre apparecchiava, faceva sempre una smorfia di disprezzo quando metteva a tavola le posate. E poi aveva la fissa dellʼuovo, di quella puzza di uovo che lui sentiva dappertutto, odorava sempre piatti e bicchieri e puntualmente se li faceva cambiare, ovunque fosse, perché se sentiva quella puzza non riusciva proprio a mangiare. Mia nonna lo viziava e, da quando era in pensione, aveva iniziato ad istruirlo bene sulla scelta degli alimenti da comprare. Cʼerano voluti anni di spesa insieme a Marineo per fargli capire come riconoscere la carne buona o le melanzane e le olive migliori. Poi aveva passato lʼesame e la nonna aveva cominciato a dargli diversi incarichi, quindi scendeva da casa più volte al giorno per comprare o il prosciutto senza conservanti o due etti di provola dolce tagliata a fettine sottili o due etti di parmigiano grattugiato. Al vino aggiungeva mio nonno aggiungeva lʼaranciata, poi si poteva cominciare il pranzo.
La nonna iniziava a mangiare cinque minuti dopo di noi, dopo aver osservato con attenzione la nostra espressione dopo il primo boccone: se non era accompagnato da

unʼesclamazione o unʼespressione di sorpresa per la bontà di quello che aveva cucinato, si chiudeva in unʼespressione arrabbiata, offesa. I suoi piatti doppi erano speciali e si offendeva quando ogni tanto pranzavo dallʼaltra mia nonna, mi chiedeva spiegazioni e mi illustrava puntualmente i piatti che avrebbe cucinato il giorno dopo, facendomi venire lʼacquolina in bocca e convincendomi ad andare a casa sua.
Era bella mia nonna, aveva gli occhi azzurri e delle rughe eleganti intorno agli occhi, profumava di Neutro Roberts ed era timida quando si trovava davanti a gente sconosciuta, sempre attenta a non sembrare inopportuna o poco garbata. Quando ero piccola e avevo la febbre veniva a trovarmi a casa e io ero felice, mi rassicurava il fatto di avere anche lei vicino, mi rassicuravano le confidenze che lei faceva a mia mamma, convinta che io non capissi di cosa stava parlando. Io ascoltavo, e quel chiacchiericcio era il mio sottofondo preferito, il modo migliore per trascorrere le giornate in cui non potevo andare a scuola, nel soggiorno di casa, con il sole placato dalla tenda pesante bianca e lʼaria ferma. Lei arrivava profumata e pettinata come se dovesse andare a teatro, con quelle sue gonne sotto il ginocchio e quei cardigan e i foulard a fiori bordeaux, mi chiedeva se stessi meglio e poi cominciava a parlare con mia madre. A volte mi infastidiva il fatto che non mi desse le giuste attenzioni, come se la mia febbre non fosse importante, come se la mia influenza non meritasse più di due minuti di conversazione. Io invece volevo essere al centro dellʼattenzione di entrambe, volevo essere lʼunico argomento di discussione, mi perdevo negli occhi della nonna e aspettavo un suo cenno, uno sguardo dolce, cercavo la sua complicità.
La nonna veniva sempre a casa quando stavo male, sempre. Portava una montagna di contenitori pieni di cibo, si sedeva sulla sedia di fronte a me, mia madre accanto, guardava solo mamma. Solo quando andava via mi guardava bene e mi diceva: ʻdomani passo a vedere come staiʼ. E io mi sentivo felice perché cʼerano due mamme a vegliare su di me. 

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