sabato 6 luglio 2013

Broadcasting


C’è qualcosa di malsano nella somma dei messaggi cui siamo sottoposti quotidianamente. C’è l’origine delle nostre paranoie, delle nostre paure, della nostre ansie. Proverei a sperimentarne gli effetti e le conseguenze fantascientifiche.
Per ogni bombardamento subìto c’è, però, un antidoto che ci restituisce l’illusione di vivere sereni.


Una voce metallica ci bloccava sui corridoi plastificati e lucidi.


Proveniva dall’altoparlante dell’aeroporto. Era una donna. Non annunciava né voli né problemi tecnici.
Parlava come se ci conoscesse da tempo. Sembrava avesse studiato i nostri passi dalla nascita.
Sapeva tutto, e quello che sapeva era vergognosamente vero. Ma la cosa più incredibile era che quella voce stava pian pian svelando tutti i nostri segreti, prima in italiano, poi in inglese.
Stava dicendo alla signora del gate b6 di non sculettare in quel modo. Consigliava di stare bene attenta perché i tradimenti in casa sua non sarebbero potuti durare a lungo. Un attimo dopo si rivolgeva al marito, invitandolo a  prestare attenzione alla moglie.  
Poi aveva parlato di politica. Davanti al desk 223 c’era un politico famoso. Ci aveva invitati ad osservarlo bene, aveva sentenziato che quello era un uomo corrotto e falso e che qualunque persona con un po’ di buon senso non l’avrebbe votato. 
Con nomi e cognomi era difficile non crederle. Se quel politico avesse fatto finta di niente, nessuno si sarebbe accorto di lui ma si dimenava, si guardava intorno e aveva dato nell’occhio.

Eravamo tutti imbarazzati dentro l’aeroporto, col vento che sfogliava gli alberi e le piste di decollo immerse in un vortice d’aria che scombinava tutto, che sollevava polvere e pentimenti.

Poi, dall’altoparlante, si era sentita la sigla del telegiornale. Erano tutte notizie di cronaca nera: un incidente sul raccordo, in cui aveva perso la vita un’intera famiglia, una signora uccisa a colpi di cavatappi dal marito, un gatto crocifisso davanti la sede della protezione animali, un ragazzo picchiato e derubato in centro città e una bomba esplosa qualche ora prima davanti ad una scuola, proprio nel momento della ricreazione. Una strage.

La voce metallica della ragazza era intervenuta di nuovo. Parlava piano, aveva un tono rassicurante ma diceva cose orribili. 

Oggi non ci sono uomini della sicurezza all’interno dell’aeroporto. Sono tutti in sciopero. Se dovesse succedervi qualcosa la responsabilità sarà soltanto vostra. 

La gente cominciava ad insospettirsi, le madri stringevano al petto i figli e il panico stava prendendo piede. Non sapevo cosa fare né cosa pensare.
I telefoni erano isolati, non c’era campo in nessuna zona dell’aeroporto.

Da questo momento tutte le porte dell'aerostazione sono chiuse, nessuno può più uscire e né entrare. Vi preghiamo di affrettarvi e controllare sugli appositi tabelloni il numero del gate. 

Il brusio dell’inizio aveva lasciato il posto ad urla scomposte. Avevo visto persone che scappavano, le valigie lasciate in giro qua e là. Alcuni battevano pugni e calci per aprire le porte a vetri che però sembravano sigillate. 
 
Avevo provato a forzare le porte scorrevoli ma niente. Fuori non c’era anima viva. Avevano sicuramente bloccato l’ingresso all’aeroporto, messo pattuglie di vigili alla fine dell’autostrada per bloccare le auto. Mi ero guardato intorno, non riuscivo a capire cosa stesse succedendo.  

Dovevo andare a Parigi a trovare mio figlio. Avrei voluto chiamarlo. Il cellulare non dava campo. Allora avevo acceso il pc e avevo inserito la password per collegarmi dall’aeroporto. 
Niente.  Nessuna rete. 

Poi, di nuovo la voce:
Tutte le bevande somministrate all’interno dell’aeroporto contengono una sostanza che vi aiuterà a mantenere la calma, a rilassarvi ed eliminare gli attacchi di panico. 

Da non crederci.
Avevo con me la valeriana. La portavo sempre quando dovevo volare. Non mi piaceva la sensazione di ansia che mi procuravano il decollo e l’atterraggio. Avevo svuotato metà boccetta di compresse e le avevo ingoiate senza acqua.

C’era un signore che inveiva contro un’impiegata, urlava, voleva spiegazioni. Era una delle poche impiegate rimaste in giro. Tutti i desk ormai erano chiusi e i gate automatizzati. 

Nessuno dava indicazioni. 
Dagli schermi della videosorveglianza si potevano osservare scene di panico. Gente che urlava e piangeva, gente che correva tra scale mobili e uffici di polizia. 
Nessuno poteva rassicurarci.

Una ragazza con gli occhi neri e i capelli lucidi di sporco, si era avvicinata ad un distributore automatico. Non sembrava spaventata. Era sola e aveva un bagaglio a mano con una targhetta ben in evidenza dove si poteva leggere il suo nome. Eveline, si chiamava. Si guardava intorno, sembrava cercasse qualcuno. Si era rivolta ad un signore barbuto seduto dietro di lei. Lui teneva le mani sul capo, sembrava disperato. Chissà cosa si erano detti. 
La ragazza aveva inserito delle monete e dal distributore automatico era venuta fuori una bottiglietta d’acqua.
Bevuto il primo sorso, un sorriso sereno si era imposto sul suo viso. Il signore barbuto le aveva chiesto qualcosa e un attimo dopo l’aveva seguita a ruota, aveva preso anche lui l’acqua e  si era diretto verso un gruppo di ragazzi, probabilmente una squadra di calcio in partenza. Aveva parlato con loro, che si erano diretti tutti al distributore.

Dopo una trentina di minuti, l’ordine sembrava essersi ricomposto. La folla impazzita aveva trovato la sua geometria nello spazio, tutti schierati in fila alle macchinette automatiche, a bere qualcosa. Qualcosa che faceva bene, che rilassava la mente. 

Sembrava avessi sognato tutto. Ma io ero uno dei pochi rimasti lucidi. Erano tutti drogati, ormai. E calmi, rilassati, sorridenti. 

sabato 1 giugno 2013

Dove trovare i fondi per il Comune di Palermo

A Firenze mi hanno multata perché sono passata col rosso. Giuro che il semaforo non l’avevo visto. Era coperto da un albero. 
Non voglio giustificarmi, so che ho sbagliato.
In fondo però Renzi e la sua amministrazione fanno bene. Gli automobilisti, fiorentini e non, sono accorti e rispettano le regole. E magari rispettare le regole diventa sempre più difficile, come in un gioco a livelli, perché i semafori sono coperti dagli alberi. 
Questo banale episodio mi ha fatto pensare a Palermo. L’amministrazione comunale ha un grosso vantaggio rispetto a quelle del resto d’Italia. Qui la nostra inciviltà garantisce un introito sicuro. Il comune potrebbe arricchirsi, potrebbe amministrare la città anche solo grazie alle multe. 
Forse multare chi non rispetta il codice della strada servirebbe sia a rendere i palermitani più civili sia a trovare un po’ di denaro per amministrare la città.

giovedì 9 maggio 2013

Il reporter diffuso


Da un post su Facebook mi ricordo che oggi Peppino è stato ammazzato. 
Il porto di Genova, il governo misto, la Sicilia di Crocetta, l’editoriale di Gramellini e il nuovo disco di David Bowie sono solo dei tweet e quindi vado a caccia delle notizie per rendermi il profilo interessante e colto. 
Non c’è nulla che non risulti ipocrita sui social network, nulla che non risulti banale. Questo mi spaventa, la mancanza di serietà, la banalità di un post con troppi ‘mi piace’, il plebiscito elettronico, lo svilimento della storia, della politica, della vita, in generale. E a volte la scambiamo per democrazia... Tutti dicano quel che pensano! 
Ma no, sole le voci autorevoli dovrebbero aver fiato e, anch’io, che adesso mi trovo a scrivere di questo, mi sento più che ipocrita e banale. 
Quello che si chiamava giornalismo è adesso un marciapiede in cui tutti possono pisciare, è una fossa comune, un muro deturpato, un incubo social che dovrebbe fare presto a sparire. 
Non so se la democrazia è online come ci ha fatto credere Grillo, credo solo che il web sia il modo migliore per coinvolgere noi che abbiamo imparato da piccoli ad accendere un computer e che sappiamo solo in parte come gira il mondo, quello virtuale si intende. Quello reale sembra tutta un’altra cosa, con le urla della piazza che grida ‘ho fame’ e le tasche piene di insulti, con la rabbia dei porci e nessun commento commentato, senza condivisione e senza spazio, urla vuote che non arrivano a un metro più in là. 
Le voci, sul web, sono distanti e compromesse, sono filtrate e ormai vecchie. Quel ‘vecchio’ che abbiamo attorno nella vita reale, non emerge, non passa. 
Ho ereditato dagli anziani che conosco la tendenza ad essere anziana, a rimpiangere il vecchio e odiare il nuovo.

mercoledì 1 maggio 2013

La morte è uno spettacolo che soddisfa

Quando frequentavo il liceo, la mia professoressa di latino era talmente ossessionata dal problema della morte nella cultura classica che non faceva altro che declamare: «Mors quid est? Aut finis aut transitus», ovvero la morte o è la fine o un passaggio da un mondo ad un altro.
Riallacciandosi alla concezione filosofica di Platone, Seneca, nelle sue famose Epistulae Morales Ad Lucilium non escludeva la possibilità di una nuova vita dell’anima, l’inizio di un nuovo ciclo vitale dopo la morte. Il filosofo stoico non fa altro che sintetizzare, in un’unica frase, anni di dibattiti alimentati da due visioni contrapposte: da un lato quella materialistica di Democrito e di Epicuro per cui la morte era la fine di tutto, e dall’altro quella spiritualistica di Pitagora, Platone e dello stoicismo per cui la morte era un passaggio o un ritorno ad altra vita. Quel passaggio implicava la liberazione dell’anima dal carcere del corpo e quindi la fine di tutte le sofferenze.
Anche per il cristianesimo la morte è un passaggio, un momento di transito necessario per una vita migliore. La morte, così intesa, fa quasi pensare a un traguardo raggiunto dopo un percorso duro e pieno di ostacoli, il punto di approdo conquistato dopo un lungo “viaggio di formazione”. La secolarizzazione ha fatto in modo che il venir meno dei valori religiosi, generasse un cambiamento nella concezione della morte all’interno della società. Se penso alla concezione che abbiamo oggi della morte, quindi alla morte nell’epoca dei mass media, mi viene in mente la sua spettacolarizza- zione. Lo sdoganamento di questo tipo di spettacolo basato sulla sofferenza – si pensi alla tragedia di Vermicino e alla diretta Rai di diciotto ore a reti unificate per raccontare la lenta agonia del bambino, precipitato due giorni prima in un pozzo – dà vita ad un pubblico che, guardando, si anestetizza e smette di provare pietà.

In ambito letterario questo paradosso è stato approfondito da Aldo Palazzeschi in una novella, ironica quanto feroce, in cui un “uomo qualunque”, assolutamente ignorato dalla gente, soffre in quanto sente l’esigenza di essere “qualcuno” all’interno della società. Per ottenere notorietà, l’unico modo possibile è compiere un efferato omicidio. La poco conosciuta novella Issimo, di Aldo Palazzeschi, raccolta nel Palio dei buffi (1937), anticipa i tempi e descrive con amara ironia le ultime ore di vita di un uomo plagiato da una società malata in cui compiere un misfatto è condizione indispensabile per diventare popolare. Il protagonista sente una smania insinuarsi tra le viscere, un sentimento insopportabile e ripugnante, una forte invidia, un malessere legato alla sua impopolarità visiva.
La nuova cultura dell’immagine prevede che la morte diventi arte, merce vendibile e spendibile, che le violenze e le storture del mondo navighino, tramite flussi invisibili, sugli schermi di tutto il mondo, montate a dovere e con la giusta colonna sonora.
Nel «periodo del superlativo» – in cui «l’urlo più alto, il salto folle, il colpo forsennato, la più strabiliante trovata o promessa» hanno la meglio – fare del bene, è fuori moda, significa essere condannati all’impopolarità e all’anonimato. Palazzeschi infatti scrive: «cantar la propria donna in paradiso contornata dagli angioli tra stelle e rose, non era a quel fine dissimile dallo spedirvela a pezzettini, mirabilmente confezionata dentro bauli o valige, o in pacchi postali come si usa adesso».
L’unico problema del nostro protagonista è la mancanza di fantasia. Pur di farsi pubblicità, i suoi concittadini hanno sperimentato tutti i modi di uccidere. «Se ammazzar la propria moglie produceva un particolare clamore, perché il clamore divenisse generale bisognava ammazzarne almeno sette. Due righe di giornale erano dovute a chi rubava poco, per chi rubava molto, invece, intere colonne».
Per questo, per riscattarsi dalla sua mediocrità, decide di suicidarsi. Ma decide di farlo in un modo non convenzionale, ovvero non da eroe ma da uomo qualunque. Vincere questa sfida è il suo obiettivo. Se la norma prevede che per diventare famosi bisogna macchiarsi dei più efferati crimini, lui deciderà di sfidare il sistema facendo il contrario. Il suo sarà visto come un gesto sovversivo e, proprio per questo, gli regalerà la gloria. Forse un’ostinata solitudine avrebbe attirato su di sé la curiosità del prossimo. «Per vincere bisognava morire senza che nessuno se ne accorgesse».
Decide di portare il suo corpo in ospedale e farsi benedire da un frate. «Fattosi al suo giaciglio un cappuccino, gli domandò con un sorriso dolce: - Sicché? - Né buono né cattivo, non ho fatto male ad alcuno, sono solo e non lascio niente. - Bene, niente – rispose il frate, e benedì il niente». Il giorno dopo, il necrologio riporta sì il suo nome, ma con due lettere sbagliate. Anche il numero degli anni da 70, per la dimenticanza dello zero, diventa 7. Inoltre, il caso vuole che quel giorno, «[...] come accade sempre in questi casi straordinari, la fortuna si aggiunge al merito: si leggeva sul giornale dell’attentato a un Re, era scoppiata una rivoluzione, quattro erano in corso e una lì per lì per scoppiare, due terremoti e un nubifragio avevano prodot- to migliaia di vittime: una moglie per vendetta aveva accecato il marito con le cesoie, e una fanciulla per dare un valido esempio, sempre con le cesoie aveva malmanomesso il proprio fidanzato; divorati sei bambini un orco. Due matches di boxe agitatissimi, [...] e un telegramma dell’ultim’ora recava la notizia ch’era stato toccato il Polo. Non uno di quei tanti lettori, vedi prodigio, lesse nel necrologio del nuovo campione il nome sbagliato».

L’ironia di Palazzeschi è amara e più che attuale e fa riflettere sull’evoluzione del concetto di morte nella società contemporanea.
Anche se quello della spettacolarizzazione della morte potrebbe sembrare un fenomeno caratteristico della nostra cultura degli ultimi cinquant’anni, dovuto all’avvento della televisione e allo sviluppo delle nuove tecnologie, in realtà, ha radici ben più antiche.
Seneca, sempre nelle Lettere a Lucilio, esprimendo un giudizio riguardo la moralità della pena del sacco, ovvero una pena inflitta ai soggetti ritenuti colpevoli di parricidio, spiega che da quando la pena era entrata in vigore i casi di parricidio erano aumentati. Il fatto che la morte del parricida avvenisse in diretta – e seguendo un rito crudele per il quale veniva frustato, cucito in un sacco di cuoio insieme ad una vipera, un cane, un gallo e una scimmia e poi gettato nel Tevere – secondo l’autore, spinge l’uomo all’emulazione e per di più si collega a quell’ansia di vedere morire qualcuno come se si stesse assistendo ad uno spettacolo.
In una delle sue tragedie, Le Troiane, lo scenario spettacolare in cui l’autore colloca le morti di Polissena e Astianatte è quello di una folla di Greci e Troiani, che impreca, commenta e segue con apprensione lo spettacolo delle morti in diretta. Morti esemplari, ai limiti del tragico, denunciano la follia dell’uomo che si nutre di scene raccapriccianti. «L’uomo, creatura sacra all’uomo, viene ormai ucciso per divertimento e per gioco, e mentre prima era considerato un misfatto insegnare a un individuo a ferire e a essere ferito, ora lo si spinge fuori nudo e inerme, e la morte di un uomo è uno spettacolo che soddisfa».
I valori religiosi vengono sostituiti da valori profani, e la morte cessa di essere un momento sacro. È straordinario pensare che quest’ansia di assistere alla morte in diretta abbia radici così lontane.
Nel corso degli anni la morte, oltre ad aver perso la sua connotazione sacra, è diventata il pretesto per ottenere popolarità, un modo per fare audience. Questo è avvenuto non solo per i proprietari delle reti televisive, i conduttori dei programmi tv o per gli industriali ma, di riflesso, ha avuto conseguenze sociologiche agghiaccianti per i cittadini che hanno visto in questo sistema il modo migliore per raggiungere la notorietà attraverso un preciso atteggiamento mediatico. Si pensi allo splendido film di Sidney Lumet Quinto Potere (Network) in cui un conduttore televisivo, per risollevare l’indice di gradimento del proprio programma, annuncia il suicidio in diretta.
Le immagini dei morti diventano ovvie come quelle dei bollettini meteorologici quotidiani. Jader Jacobelli, nel 1996 scriveva: «C’è l’alta e la bassa pressione e ci sono anche i morti. Non abituiamoci alla vista dei morti per non sconfiggere definitivamente la vita».

Saggio pubblicato sul numero 9 della rivista Il Palindromo

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