mercoledì 23 ottobre 2024

Bartleby, il rifiuto del lavoro e la resistenza passiva

 

‘Preferirei di no’ è l'enigmatico motto di Bartleby, lo scrivano che dopo esserre stato assunto in uno studio legale di Wall Street come copista, si rifiuta di svolgere totalmente il suo lavoro.

Il dramma di Bartleby ha forse a che fare con la ‘copia’. L’impiegato, quando il narratore - nonché il suo datore di lavoro (che in effetti è tanto turbato da questa storia al punto di raccontarla) - gli chiede di svolgere dei compiti per lui, di recarsi alle poste o leggere un documento legale, Bartleby risponde sempre allo stesso modo: “preferirei di no”.

Il dramma del personaggio sta nel non voler accettare qualsiasi tipologia di autorità. Se proprio deve lavorare secondo gli orari stabiliti, Bartleby fa del suo ufficio la sua dimora, la sua residenza abituale. Quando viene scoperto e licenziato dal suo datore di lavoro, che appare tormentato da una lotta interna in cui si alternano utilitarismo e magnanimità, Bartleby non rispetta l’ordine di lasciare lo studio e terminare il rapporto di lavoro. Egli rifiuta, continuando ad occupare l'ufficio e smettendo di svolgere qualsiasi lavoro richiesto. L’unica cosa che fa durante il giorno è fissare i muri, quelli di Wall Street, quelli del carcere in cui in seguito è rinchiuso. E in effetti l'unica cosa in cui riesce è lo 'stare fermo', immobile, come riferisce al suo capo.

La sua protesta passiva lo conduce a non nutrirsi più, rifiutando ogni tipo di dialogo e mettendo in difficoltà non solo gli impiegati dello studio legale in cui lavora ma perfino i dipendenti del carcere che non riescono a farlo mangiare. Bartleby morirà in carcere, rifiutando qualsiasi tipo di dialogo, cibo o richiesta di spiegazioni.

Il rifiuto di Bartleby ha a che fare prima di tutto con la copia, con il bisogno fisiologico di opporsi ad essere considerato un mero scrivano che riporta su un foglio ciò che è stato scritto da altri, con l’accettazione riluttante di essere nessuno, forse un numero, uno qualunque del meccanismo del lavoro inteso come produttività.

Emerge una difficoltà oggettiva da parte di tutto il suo mondo circostante di considerare l’individuo al di fuori del lavoro e delle prestazioni legate alla produttività. Nessuno sa come trattare Bartleby. Ed è proprio questa la sua arma, la sua ricchezza.

Bartleby rappresenta la crisi dell’individualità. Copiare documenti equivale a copiare pensieri, persone, idee e quindi a snaturare se stesso come individuo privandolo di ogni forma di volontà e desiderio. Il nostro protagonista soffre di una depressione dettata dall’assenza di libertà naturale, dall’ingabbiamento in vuoti umani recintati da muri.

Bartleby è una figura controversa, che si presta a più interpretazioni ma mi piace pensare che sia il ‘paziente zero’ di una società che si ribella alle sue assurde regole lavorative. Mi piace pensare che Melville, scrivendolo, abbia formulato un’accusa precisa contro un sistema lavorativo in cui chi non produce muore. Il deserto emozionale e fisico di Bartleby è il nostro deserto prima dell’indottrinamento della società della prestazione, dell’incasellamento emotivo e di quel logoramento dell’anima che fa del dovere il fulcro delle nostre vite. Bartleby spezza questa catena in modo passivo e ne esce vittima ma allo stesso tempo eroe, ci mette in guardia ‘stando immobile’ e la sua immobilità fa da contraltare alla frenesia dei ritmi del lavoro, alle sue convenzioni sterili e disumanizzanti. 

Bartleby muore perché rifiuta il suo mondo, muore dicendo ‘preferirei di no’.



Bartleby è un racconto del 1853 di Herman Melville.

sabato 19 ottobre 2024

Facciamo festa! Ovvero come resistere alla società della prestazione...

 


Quanto facciamo fatica ad essere noi stessi?

Quanto ci disturba oggi stare soli con noi stessi?

Perché sono depresso?

Perché sono iperattivo?

Perché sono in burnout?

Dopo anni di terapia, colui che ha saputo rispondere a tutte questa domande non è stato il mio psicologo ma Byun-Chul Han nel suo saggio ‘La società della stanchezza’.

Siamo ‘soggetti di prestazione’. La prestazione è ciò che ci costringe a lavorare, essere sfruttati e ad autosfruttarci. Quello che chiamiamo  burnout è il risultato di questo sfruttamento e autosfruttamento.

Byun-Chul Han dice che il vero nemico dell’individuo tardo moderno è se stesso. Ciò genera depressione e frustrazione che si esprime in fallimento. Il fallimento deriva proprio da quel tentativo di essere se stessi, dell’affrontare la vita in totale autonomia, accettando un’atomizzazione sociale che ci porta ad essere sempre più soli, in competizione con noi stessi, costretti alla libertà assoluta quando della libertà non sappiamo che farcene o quanto meno come maneggiarla.

La felicità non è più distribuita, come in passato, dalla perfezione morale che ci conduceva alla gratificazione. La nostra imperfezione non ha nulla a che fare con il rispetto delle regole, con il dolore, con un conflitto con l’Altro ma nasce dall’essere soli e liberi di essere noi stessi. Sembrerebbe una cosa buona ma questa libertà  rappresenta in realtà il suopermanente dramma. Kierkegaard diceva che il dramma e la miseria dell’uomo consistono proprio in questo brancolare nel buio, nella permanente indecisione scaturita dalla mancanza di una guida che ci permetta di orientarci.

La gratificazione, che prevede l’esistenza dell’Altro per esistere, ci porta a sviluppare un disturbo narcisistico della personalità che ci spinge ad avere sempre maggior necessità di conferme da parte degli Altri. Sembra molto più comodo dunque rinunciare a se stessi ed autoannullarsi nella depressione piuttosto che annegare nella molteplicità del nostro Io senza una reale direzione o approvazione.

In questo contesto, il mondo digitale in cui viviamo  ci costringe a vivere senza riferimenti reali che oppongano una giusta resistenza. L’Altro sparisce e l’individuo è costretto ad incontrare solo se stesso e provare ad assumere sempre nuove e diverse identità, in linea con quel concetto di flessibilità che gli permette di essere sempre qualcun altro, incrementando la produzione ma non raggiungendo alcun obiettivo realmente desiderato.

Ciò si traduce nell’incapacità di portare a termine qualsiasi progetto in quanto mai confermato, approvato o osteggiato dall’Altro. Penso al protagonista del film Fight Club di David Fincher in cui Jack/Tyler vive lo strazio della dissociazione dell’identità e può risolvere il suo conflitto interiore solo uccidendo una delle sue identità che in questo caso, appunto, coincide con l’eliminare se stesso.

Qual è la causa di questo annichilimento? Secondo Byun-Chul Han  la causa è da rintracciare nella mancanza di un rapporto con l’Altro, nella solitudine scaturita dall’atomizzazione sociale, dalla società digitale multitasking, che genera una passività mortale consumando l’individuo tardo moderno.

Non esiste cura per tutto ciò, in quanto l’uomo tardo moderno, dice l’autore, non è un prodotto della società disciplinare repressiva, e il malessere che ha dentro di se non dipende da fattori esterni ma piuttosto da una mancanza di relazione con fattori esterni. L’eterodirezione della società di massa non esiste più, è annullata, annientata dal mondo del se che non ha più una base reale per essere ciò che è o ciò che non è.

Questo autoriferimento esagerato ci porta ad essere incapaci di fuoriuscire da noi stessi perché non possiamo affidarci agli Altri e siamo quindi costretti a svuotarci fino al logoramento, all’ ‘infarto dell’anima’.

Ne conseguono irritabilità e nervosismo, ma mai rabbia. La rabbia è un sentimento in via di estinzione, richiederebbe un’energia in grado di provocare un mutamento incisivo, di scuotere l’intera esistenza e attivare una rete di anticorpi e di difesa immunitaria naturale. L’irritazione costante, dice Byung-Chul Han, sta alla collera come la paura sta all’angoscia. La collera, come l’angoscia, non si riferisce ad un singolo stato di cose ma all’intera esistenza, negando l’intero. L’individuo si trasforma così in una ‘macchina da prestazione autistica’ affetta da depressione, disturbo dell’attenzione o iperattività. Così, suggerisce l’autore, ‘siamo tutti troppo vivi per morire e troppo morti per vivere’.

 

Cosa può salvarci da questo livellamento sul grado zero? Cosa può riportarci in vita , una vita reale che sia un concetto opposto a quello di morte e autismo identitario?

Le feste, dice Byung-Chul Han. I rituali e le feste.

Perché?

Perché alle feste si consuma ma non si produce. Perché le feste sono occasioni per confrontarsi con la realtà, con un’alterità in carne ed ossa, in cui il valore di mercato o quello virtuale digitale viene sostituito con la dignità di una relazione reale.

Facciamo in modo che l’economia della condivisione produca legami fondati sulla resistenza e sull’essenza e che gli spazi vuoti dell’Io siano colmati da scambi reali in cui siano presenti anche conflitti, in cui siano resistenti anche sentimenti negativi come rabbia e angoscia.




Riferimenti: 

La società della stanchezza, Byung-Chul Han, Edizioni Nottetempo, 2021

Aut-aut, S. Kierkegaard, Mondadori, 1977

Fight Club, David Fincher (film tratto dall'omonima opera di Palahniuk)




lunedì 23 settembre 2024

Di città soffocanti, gente frustrata, vincoli sociali e ragazzini odiosi

 

Nelle strade che percorro giornalmente c’è una nebbia fittissima. Non appena apro la finestra solo macchine, impegnate nello slalom della puntualità quotidiana. I pochi passanti hanno i paraocchi, evitano gli sguardi altrui il più possibile, sembrano dei cadaveri vestiti in bianco e nero, con le facce scavate dall'aria putrida.

Mi perdo negli sguardi delle madri con il fiatone, dei tossici che si trascinano a fatica con gli occhi sgranati, dei vecchietti con il cane da compagnia, dei ragazzi di Glovo con una mano sul cellulare e l’altra sul manubrio della bici. Non mi sento sola, mi sento isolata piuttosto. E così vedo loro, isolati. 

Quando scendo da casa anch'io mi trasformo in uno di loro. La signora che mi cammina accanto trema quando sente dei passi dietro di lei, l’automobilista insulta il conducente dell’auto che gli sta davanti, l'edicolante prega che non entri nessuno a comprare, a giudicare dall'atteggiamento misantropo. Sembrano tutti svogliati e lobotomizzati, come incasellati in cubicoli che non hanno alcuna traccia umana.

Sto solo respirando gas di scarico, penso. Lo repiro da 12 anni o 13. E mi chiedo cosa significherebbe rifiutare tutto questo, rinunciare a questa gabbia per qualche tempo.

Mi pento di vivere così, di aver vissuto così fino a questo momento, mi pento della riservatezza imposta, dei sorrisi forzati e un abbraccio sincero solo ogni tanto, del decoro urbano e di quello che bisogna dire o non dire per non ferire la gente permalosa. Mi pento dei vincoli sociali, di tutte le sovrastrutture mentali che mi fanno diventare un automa.

Non ci sono più panchine, penso. Io mi sedevo spesso sulle panchine, mi piaceva. Le panchine ti permettono di fermarti e osservare un pezzo di città, ammirarla, conoscerla. Le panchine sono luoghi di ritrovo, possono essere luoghi veri ma in qualsiasi comune, da nord a sud, hanno deciso di trasformare quasi tutti gli spazi pubblici in 'non luoghi', togliendo di mezzo qualsiasi supporto per sedersi o facilitare l'aggregazione

Mi sembra che la mia vita sia diventata una vita in punta di piedi, un continuo fare attenzione a non fare casini, offendere o ferire nessuno, a dire le cose giuste al momento giusto, senza il gusto di essere sé stessi o non prendersi sul serio. Sento che il mio desiderio di ironia o spontaneità rovini le giornate alla gente che mi circonda. Tutto questo mi toglie la libertà di essere me, mi paralizza anche negli intenti, nelle passioni, in ogni tipo di azione propulsiva.

Ho anche un altro problema poi, odio i ragazzini di oggi. Si incontrano a casa o al parco ma tengono lo sguardo fisso sul Youtube, Snapchat o TikTok, respingendo qualsiasi tipo di contatto visivo, non vedendo nemmeno che è dallo sguardo che passano le emozioni. Hanno come obiettivo quello di pubblicare migliaia di video e ricevere like dagli altri ragazzini, cercano popolarità con ogni mezzo e non sono disposti ad imparare più nulla dai genitori o dai maestri. Mangiano male e ad ogni ora e non accettano i 'no' come risposta, sono volubili e suscettibili. Crescono interpretando ruoli diversi in ogni momento della giornata cambiando continuamente filtri su Instagram. Credono che tutto ciò che merita di essere visto sia riprodotto da uno schermo, imparano dagli influencer, mestiere che peraltro sognano di fare da adultianziché da un viaggio, una gita, una lezione.  

Pallidi sono, senza amore per gli altri. Fare qualcosa per loro ha senso solo se si può fotografare, postare e ottenere like.

Il mio dolore è estraneo alla volontà di giudizio manichea. Non voglio condannare nessuno né affermare che noi da ragazzini eravamo completamente diversi. 

Dico però che questo cambio generazionale ha palesato una delle mie paure più grandi, ovvero quella del soffocamento dell'individualità, quell'individualità costruita dal confronto con l'altro, il diverso, il nuovo, e che passa attraverso delle emozioni reali, che coinvolgano tutti i 5 sensi. Vivere una vita di finzione costante corrisponde a spazzar via una parte di sé stessi, e se al compiacimento dell'altro corrisponde il compiacimento e la soddisfazione di sè stessi, come si  fa a capire chi si è davvero e come si fa a confrontarsi con la realtà?






giovedì 15 agosto 2024

Cani senza patruni

 



Quannu mi pigghia a malinconia,

quannu mi sentu na cosa inutile o nna 'na strata senza uscita,

quannu mi vennu tutt'i nuoliti ru munnu e mancu mi pozzu addummisciri,

a cosa chiù bella chi mi veni ri pinsari è chi sugnu un cani senza patruni.

Nuddu mi cumanna, chiddu chi mi passa pa tiesta u ricu senza farimi troppi problemi,

mi nni vaiu ri ccà e ri ddà e parru cu tutti, 'nquetu a tutti,

parru cu picciriddi e cristiani, mi fazzu cuntari cosi novi, eccu vuci si mi veni ri ittari vuci, 

riru, chianciu, babbiu, m'arraggiu si mi fannu arraggiari.

Chistu è secunnu mia u sensu ri tutta a me vita e ancora cchiu bellu aviri qualcunu o latu ca t'assicunna,

ca un si nni fa' problemi, qualcunu chi pigghia a vita a ririri e avi siempri 'na parola bona pi tutti,

quarcunu chi biri sulu u suli e che l'acqua u vagna e u ventu l'asciuga.

Senza patruni vogghiu stari, vivere a sentimento, 

senza nuddu chi mi rici 'nzoccu a fari, senza cummattiri chi cristiani ca pensanu sulu a travagghiari futtennu l'avutri, 

cu u piaciri ri parrari chi cristiani, aiutalli, rarici cuntu, vasalli. 

Chianciri 'nsemmula, comu frati, 

e si c'è quarchi problema, abbrazzarinni, caminari sempi rittu, senza lassari nuddu n'arrieri.


Traduzione

Quando mi prende la malinconia, quando mi sento inutile o in una strada senza uscita, quando mi vengono tutte le paranoie possibili e non posso nemmeno dormire, la cosa più bella che mi viene da pensare è che sono un cane senza padrone. Nessuno mi comanda, quello che mi passa per la testa lo dico senza troppi problemi, me ne vado di qua e di là e parlo con tutti, disturbo tutti, parlo con bambini e adulti, mi faccio raccontare cose nuove, urlo se mi viene da urlare, rido, piango, scherzo, mi arrabbio se mi fanno arrabbiare.

Questo è secondo me il senso di tutta la mia vita e ancora più bello è avere accanto qualcuno che ti asseconda, che non si fa problemi, qualcuno che prenda la vita con leggerezza e ha sempre una parola buona per tutti, qualcuno che vede solo il sole, che 'l'acqua lo bagna e il vento l'asciuga'.

Senza padrone voglio stare, vivere a sentimento, senza nessuno che mi dice cosa fare, senza avere a che fare con persone che pensano solo a lavorare fottendo gli altri, con il piacere di parlare con la gente, aiutarla, dargli retta, baciarla. Piangere insieme, come fratelli, se c'è qualche problema, abbracciarci, camminare sempre dritto, senza lasciare nessuno indietro.


sabato 20 aprile 2024

Depressione e narcisismo

 

Sono 300 milioni nel mondo le persone che hanno sofferto almeno una volta di disturbi depressivi. Le donne adulte sono il doppio degli uomini. I bambini no, i bambini sono depressi uguali, maschi e femmine. Questo il dato evidenziato dalla psicoterapeuta Morelli nel podcast Sigmund del Post. Cos’hanno le donne che non va, mi chiedo?

Il carico emotivo ed emozionale, il carico cognitivo, gestionale e logistico.

Quali i sintomi? Tristezza, la perdita di memoria, un basso livello di concentrazione, rallentamento psicomotorio, affaticamento, mal di testa, disturbi gastro intestinali. E la rabbia. La rabbia è un’emozione importante, mi sembra mi caratterizzi da quando ho compiuto 10 anni. Prima c’era una parità di disagio tra bambini, prima dei 10 anni non ci si imbarazzava per niente, non ci si autosvalutava, non esistevano problemi di autostima, il senso di colpa non era un macigno che pesava tanto e i dolori emotivi non arrivavano ancora da tutte le parti.

Non siamo deboli se assumiamo psicofarmaci. Oggi nessuno basta più a sé stesso.

Noi della generazione degli anni 80 abbiamo un trauma che non accomuna tutte le altre generazioni: l’aspettativa, un’aspettativa violenta  che riguarda noi e i nostri possibili fallimenti. Un’eccessiva aspettativa da parte dei nostri genitori, un ipervalutazione e un iperinvestimento su di noi che alla fine non siamo poi così speciali.

Avevo già scritto in passato di questo tema ma non l’avevo collegato alla depressione. Invece questa sembra la sua più evidente causa.

Il tratto che caratterizza un giovane della mia generazione che poi in alcuni casi sviluppa questa patologia è quello del narcisismo. La ‘generazione Narciso’ è quella che non può sbagliare, che non accetta il fallimento e corre ai ripari proteggendosi per non sviluppare ansia, ipocondria e depressione.

La struttura narcisistica ci protegge da un potenziale fallimento che potrebbe essere fatale, dalle critiche che evitiamo attraverso post in cui giustifichiamo chi siamo, cosa facciamo e cosa mangiamo cosicché nessuno possa considerarci dei falliti.

Il fallimento però fa parte della storia evolutiva e pedagogica dell’essere umano e rifiutarlo è pericoloso per la nostra mente oltre che per il nostro corpo. Sono bastati 20 like per dormire sereno, è bastato scrivere su Linkedin che sono diventato account manager e ricevere i complimenti di tre o quattro persone per dare un senso alla mia giornata, è bastata una vendita in cui ho fatto leva sui punti deboli dei miei clienti, una foto in cui cito Proust o semplicemente lo sfoggio di qualche mia abilità fosse anche usare bene Instagram.

Nessuna condanna, non scrivo questo post per  puntare il dito contro qualcuno. Semplicemente dobbiamo esserne consapevoli, perdonare le nostre bugie, le nostre cadute, il nostro non arrivare mai.



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