La mia amica che vive a
Barcellona mi ha mandato un messaggio stanotte. Si trovava sulla metro, erano
le 11 di sera, e alla sua stessa fermata,
in un quartiere periferico, è sceso un ragazzo trans che
ha cominciato a camminare a passo svelto controllando di tanto in tanto che
qualcuno lo seguisse. Esprimeva paura, angoscia, disagio.
La paura è un’emozione che accomuna
chiunque. Daniela sostiene che un transgender ha più paura perché vive una
condizione di forte ansia sociale più di chiunque altro. Forse è vero ma la paura è un’emozione da sempre legata al contesto sociale, è diversa se ti trovi
in un paesino con pochi abitanti o una metropoli.
Cosa c’è quindi di strano? Cos’è che ha colpito così tanto
Daniela? Quella stessa paura la provava anche lei
quando tornava sola a casa a Palermo di notte, quando era una ragazzina
fuorisede iscritta all’università.
Forse la domanda giusta da porsi è: come sono
cambiate le città negli ultimi 50 anni?
Cosa è cambiato a livello
urbanistico e perché abbiamo tanta paura di essere aggrediti?
Leggendo il libro Fiducia e paura nelle città di Bauman, mi
sono resa conto di quanto la verticalizzazione del tessuto sociale, che divide
i ricchi (sempre più ricchi) dai poveri (sempre più poveri) abbia determinato
una riqualificazione notevole dei quartieri centrali. Ovunque tu vada, nei
centri delle grandi città, si assiste alla nascita continua di opere di ristrutturazione di qualsiasi tipo, con
investimenti urbanistici importanti e impalcature a ricordarne il progetto. Dall’altra
parte si assiste invece un’impoverimento urbanistico, nonché degrado, di quei
quartieri periferici che ospitano i meno abbienti. L’abbandono di una parte di
città per dare risalto ad un’altra parte, quella di facciata, ha inaugurato
quella che viene definita da Bauman la ‘politica della paura’. E la paura, nella
politica di una città è la base perfetta per il controllo e la repressione, è
il meccanismo che genera una maniacale ossessione per la sicurezza in tutti i
cittadini.
Rispetto al 2004 (anno di pubblicazione
del testo di Bauman), mi sembra che qualcosa sia cambiato. L’ossessione per la
sicurezza, madre di una xenofobia che si manifesta nell’odio, nell’insofferenza
totale verso lo straniero, ha generato una totale mancanza di accettazione di
tutto ciò che è ‘altro’, diverso, invisibile agli occhi dei ‘cittadini di prima
fila’. Prima erano migranti, poi stranieri, poi trans, donne, infine gente
comune. Adesso tutti siamo coinvolti e questa verticalizzazione di cui parla
Bauman non esiste quasi più. Anche nei centri, per motivi diversi forse da
quelli del passato, ci sentiamo minacciati da costanti pericoli invisibili che
però sembrano essere dietro l’angolo.
I luoghi (che si differenziano
dagli ‘spazi’, resi anonimi e quindi vuoti di un vissuto esperienziale),
vengono sottoposti alla logica della vigilanza continua come a ricordarci che
il pericolo c’è sempre e va avvertito. Lo ‘spazio scabroso’, come lo chiama l’architetto
americano Steven Flusty è quello che non può essere comodamente occupato o
vissuto per via dell’assenza totale di panchine nei luoghi pubblici come le
stazioni o dei bordi inclinati che impediscono di sedersi. Questo è un modo per
evitare lo stazionamento di barboni, tossici o altre persone socialmente inaccettate
per non trasformare i luoghi pubblici in zone di bivacco. Quel bivacco che a
parer mio è fondamento di inclusione e di formazione di identità di un luogo. Se
i balconi hanno delle ringhiere, è perché sono pericolosi e un bambino deve saperlo
in modo tale da non sporgersi troppo ma se muro le finestre per evitare che il
bambino si affacci al balcone o si infili tra le sbarre della ringhiera, non
gli darò più la possibilità di guardare fuori. Questo è quello che è successo
nelle città negli ultimi 40 o 50 anni. L’eccessiva sorveglianza anche in termini
urbanistici ha creato un modello di paura che suggerisce di non stazionare nei
luoghi, soprattutto nelle ore notturne.
Cosa crea questa rivoluzione
urbanistica? La disintegrazione della vita comunitaria di una città.
E cosa succede quando la comunità
intera, centro e periferia, è invitata a non riunirsi in nome di un’uniformità
di uno spazio sociale?
Succede che la città diventa davvero
pericolosa.
L’invito a rimanere a casa, per
favorire una sicurezza sociale, non è altro che quello che abbiamo vissuto
durante il Covid. Cosa hanno fatto i cittadini durante il Covid? Si sono chiusi
nelle loro case e hanno creato una vita votata alla difesa che gli consentisse
di sopravvivere anche in mancanza dell’ ‘altro’.
Tutto ciò ha potenziato le relazioni
digitali, ha accelerato di decenni la naturale avanzata tecnologica che
permette di vivere in una bolla chiusa, pensando di avere tutto a portata di
mano, che ha esautorato ogni luogo di comunità fisico all’interno di una città.
L’uniformità dello spazio sociale, caratterizzata dall’isolamento spaziale, ha generato
un’ancora minore accettazione delle differenze sociali, ha creato l’immagine di
città inclini al pericolo e meno sicure.
In questo contesto, paradossalmente,
il digital divide, ovvero il divario
tra la popolazione meno digitalizzata e quella più digitalizzata, meccanismo ancora
discriminatorio nei confronti delle classi meno abbienti, ha favorito la spinta
verso isole di identità e somiglianza in quella popolazione esclusa dalla tecnologia.
Il vantaggio diretto è stato dato dalla possibilità di aggregazione che ha
condotto ad un isolamento all’interno dello spazio urbano ma anche una riappropriazione
di luoghi incontaminati dalla sorveglianza.
Lo spazio urbano, prima luogo di
condivisione e costruzione di identità, diventa così per i poveri una
roccaforte per la sopravvivenza di un senso identitario comune, in cui le
differenze ne costituiscono la ricchezza e diventano l’alternativa vincente per
non cedere alla politica della paura.
Cosa dovremmo fare dunque per non
avere più paura? Forse iniziare a ‘contaminare’ i centri, condividere in massa
lo spazio urbano, ricominciare a mescolare lingue e culture negli spazi centrali
e periferici, riappropriandoci delle voci identitarie che da sempre sono la
base di una democrazia. Tutto ciò servirà ad evitare che la paura diventi un meccanismo
di marketing gestito dalla politica o dalle grandi multinazionali e favorire la
difesa naturale dell’essere umano capace e fiero di vivere in società.