mercoledì 27 novembre 2024

Rigurgito

Isolamento, repressione, disagio sociale, genitori che non si salutano, uomini che parlano ancora come cavernicoli riferendosi ad una bella donna, diritti lesi e vite annullate da una mail, capi arroganti e fascisti che sputano veleno, governo aberrante che svilisce il concetto di umanità, giustizia, etica. Genitori che parlano ai figli come fossero robot, bambini di Torino che se non fanno sport rischiano di finire in carcere per tentato omicidio. 

Nella violenza dell'oggi mi sento morire e mi commuovo quando guardo mio figlio che si aggira da solo nello scantinato della palestra guardando con la coda dell'occhio i movimenti violenti degli altri bambini. Vergogna che si insinua in ogni parte del corpo, ansia che pervade soprattutto il petto, che avvolge seno, polmoni, gola e stomaco e mi sento svenire, in un rigurgito di questo pezzo di mondo, di questa tristezza che io scorgo e non riesco ad ignorare.

E nelle viscere del mondo, partendo da questo tavolo, da questo pavimento, vorrei entrare per vedere se esiste qualcosa che possa restituirmi la pace, la parvenza di un'umanità autentica.  

La cosa peggiore che fanno tutte le persone che adesso mi circondano e mi ostacolano, in tutta la loro mediocrità, è togliermi la voglia di creare, edificare il mondo migliore per me, per mio figlio, uccidere la creatività e la libertà.




mercoledì 13 novembre 2024

Paura nelle città

 

La mia amica che vive a Barcellona mi ha mandato un messaggio stanotte. Si trovava sulla metro, erano le 11 di sera,  e alla sua stessa fermata, in un quartiere periferico, è sceso un ragazzo trans che ha cominciato a camminare a passo svelto controllando di tanto in tanto che qualcuno lo seguisse. Esprimeva paura, angoscia, disagio. 

La paura è un’emozione che accomuna chiunque. Daniela sostiene che un transgender ha più paura perché vive una condizione di forte ansia sociale più di chiunque altro. Forse è vero ma la paura è un’emozione da sempre legata al contesto sociale, è diversa se ti trovi in un paesino con pochi abitanti o una metropoli. 

Cosa c’è quindi di strano? Cos’è che ha colpito così tanto Daniela? Quella stessa paura la provava anche lei quando tornava sola a casa a Palermo di notte, quando era una ragazzina fuorisede iscritta all’università. 

Forse la domanda giusta da porsi è: come sono cambiate le città negli ultimi 50 anni?

Cosa è cambiato a livello urbanistico e perché abbiamo tanta paura di essere aggrediti?

Leggendo il libro Fiducia e paura nelle città di Bauman, mi sono resa conto di quanto la verticalizzazione del tessuto sociale, che divide i ricchi (sempre più ricchi) dai poveri (sempre più poveri) abbia determinato una riqualificazione notevole dei quartieri centrali. Ovunque tu vada, nei centri delle grandi città, si assiste alla nascita continua di  opere di ristrutturazione di qualsiasi tipo, con investimenti urbanistici importanti e impalcature a ricordarne il progetto. Dall’altra parte si assiste invece un’impoverimento urbanistico, nonché degrado, di quei quartieri periferici che ospitano i meno abbienti. L’abbandono di una parte di città per dare risalto ad un’altra parte, quella di facciata, ha inaugurato quella che viene definita da Bauman la ‘politica della paura’. E la paura, nella politica di una città è la base perfetta per il controllo e la repressione, è il meccanismo che genera una maniacale ossessione per la sicurezza in tutti i cittadini.

Rispetto al 2004 (anno di pubblicazione del testo di Bauman), mi sembra che qualcosa sia cambiato. L’ossessione per la sicurezza, madre di una xenofobia che si manifesta nell’odio, nell’insofferenza totale verso lo straniero, ha generato una totale mancanza di accettazione di tutto ciò che è ‘altro’, diverso, invisibile agli occhi dei ‘cittadini di prima fila’. Prima erano migranti, poi stranieri, poi trans, donne, infine gente comune. Adesso tutti siamo coinvolti e questa verticalizzazione di cui parla Bauman non esiste quasi più. Anche nei centri, per motivi diversi forse da quelli del passato, ci sentiamo minacciati da costanti pericoli invisibili che però sembrano essere dietro l’angolo.

I luoghi (che si differenziano dagli ‘spazi’, resi anonimi e quindi vuoti di un vissuto esperienziale), vengono sottoposti alla logica della vigilanza continua come a ricordarci che il pericolo c’è sempre e va avvertito. Lo ‘spazio scabroso’, come lo chiama l’architetto americano Steven Flusty è quello che non può essere comodamente occupato o vissuto per via dell’assenza totale di panchine nei luoghi pubblici come le stazioni o dei bordi inclinati che impediscono di sedersi. Questo è un modo per evitare lo stazionamento di barboni, tossici o altre persone socialmente inaccettate per non trasformare i luoghi pubblici in zone di bivacco. Quel bivacco che a parer mio è fondamento di inclusione e di formazione di identità di un luogo. Se i balconi hanno delle ringhiere, è perché sono pericolosi e un bambino deve saperlo in modo tale da non sporgersi troppo ma se muro le finestre per evitare che il bambino si affacci al balcone o si infili tra le sbarre della ringhiera, non gli darò più la possibilità di guardare fuori. Questo è quello che è successo nelle città negli ultimi 40 o 50 anni. L’eccessiva sorveglianza anche in termini urbanistici ha creato un modello di paura che suggerisce di non stazionare nei luoghi, soprattutto nelle ore notturne.

Cosa crea questa rivoluzione urbanistica? La disintegrazione della vita comunitaria di una città.

E cosa succede quando la comunità intera, centro e periferia, è invitata a non riunirsi in nome di un’uniformità di uno spazio sociale?

Succede che la città diventa davvero pericolosa.

L’invito a rimanere a casa, per favorire una sicurezza sociale, non è altro che quello che abbiamo vissuto durante il Covid. Cosa hanno fatto i cittadini durante il Covid? Si sono chiusi nelle loro case e hanno creato una vita votata alla difesa che gli consentisse di sopravvivere anche in mancanza dell’ ‘altro’.

Tutto ciò ha potenziato le relazioni digitali, ha accelerato di decenni la naturale avanzata tecnologica che permette di vivere in una bolla chiusa, pensando di avere tutto a portata di mano, che ha esautorato ogni luogo di comunità fisico all’interno di una città. L’uniformità dello spazio sociale, caratterizzata dall’isolamento spaziale, ha generato un’ancora minore accettazione delle differenze sociali, ha creato l’immagine di città inclini al pericolo e meno sicure.

In questo contesto, paradossalmente, il digital divide, ovvero il divario tra la popolazione meno digitalizzata e quella più digitalizzata, meccanismo ancora discriminatorio nei confronti delle classi meno abbienti, ha favorito la spinta verso isole di identità e somiglianza in quella popolazione esclusa dalla tecnologia. Il vantaggio diretto è stato dato dalla possibilità di aggregazione che ha condotto ad un isolamento all’interno dello spazio urbano ma anche una riappropriazione di luoghi incontaminati dalla sorveglianza.

Lo spazio urbano, prima luogo di condivisione e costruzione di identità, diventa così per i poveri una roccaforte per la sopravvivenza di un senso identitario comune, in cui le differenze ne costituiscono la ricchezza e diventano l’alternativa vincente per non cedere alla politica della paura.

Cosa dovremmo fare dunque per non avere più paura? Forse iniziare a ‘contaminare’ i centri, condividere in massa lo spazio urbano, ricominciare a mescolare lingue e culture negli spazi centrali e periferici, riappropriandoci delle voci identitarie che da sempre sono la base di una democrazia. Tutto ciò servirà ad evitare che la paura diventi un meccanismo di marketing gestito dalla politica o dalle grandi multinazionali e favorire la difesa naturale dell’essere umano capace e fiero di vivere in società.



martedì 5 novembre 2024

Perché l’algoritmo annulla il pensiero critico e cosa possiamo fare per evitarlo?

 Leggendo l’ultimo libro di Maura Gancitano, ‘Erotica dei sentimenti’, ho trovato molto intressante la riflessione relativa agli algoritmi che esula di certo dal discorso dell’autrice sull’educazione sentimentale ma mi sembra molto attuale e importante da approfondire. Perché Internet, che ci aveva dato la possibilità di esplorare il mondo dalla nostra stanza, si rivela così potente e infinitamente vasto da non riuscire a reggere il suo stesso peso tanto da creare solo influencer, corpi ostaggio dell’industria del bello, dell’estetica e del fitness?

Se pensiamo che il Word Wide Web nasce nel 1991 e nel 1994 nascono i coockies ci accorgiamo subito che in soli tre anni siamo passati dalla libertà di poter scegliere quali siti visitare all’impossibilità di cliccare su una pagina web senza essere classificati, schedati, monitorati o spiati.  Il problema dell’algoritmo però ha ancora meno a che fare con la libertà negata di quel diritto alla privacy che ormai è un fatto assodato.

Un giornalista del New York Times, nel 2013, parla per la prima volta di ‘Dataismo’ per definire il regime dell’informazione dei Big Data. Elaborare i dati per sorvegliare, prevedere, orientare i comportamenti della popolazione per alcuni rappresenta una rivoluzione senza precedenti che permette di classificare comportamenti e tendenze e semplificare la risoluzione di problemi di qualsiasi natura, per altri costituisce invece un enorme pericolo. Il problema dell’algoritmo è piuttosto legato all’esposizione a contenuti che confermano la nostra visione del mondo, creando una cerchia di utenti e contenuti affini a chi li cerca. Maura Gancitano parla di un meccanismo che alimenta il bias di conferma, cioè quella distorsione cognitiva che spinge gli individui ad interpretare le informazioni come conferma di ciò che pensavamo già da prima, ignorando tutto ciò che le contraddice o le smentisce.

L’algoritmo è dunque una manipolazione informatica che non ci permette di entrare in contatto con punti di vista ‘altri’ che avrebbero il compito di indurci al pensiero critico. Per sintetizzare, gli algoritmi annullano il pensiero critico.

Trovo molto interessante il meccanismo di manipolazione informatica perché Internet oggi costruisce una parte di identità delle persone che è estremamente rilevante nella vita quotidiana. Quello che Byung Chul Han chiama il ‘regime dell’informazione’ non è altro che il dominio di algoritmi e Intelligenza artificiale per determinare processi sociali , economici e politici. La tecnica informatica digitale quindi trasforma la comunicazione in sorveglianza. Eli Pariser, autore americano contemporaneo, parla di una ‘bolla di filtri’ che si riempie di informazioni di mio gradimento, rafforzando le mie convinzioni di un determinato fatto. Ciò farebbe in modo che il nostro mondo esperienziale e la nostra conoscenza, nonché verità, diventino sempre più limitati e parziali.

La personalizzazione riprodotta dagli algoritmi si riduce ad un’esclusione di punti di vita alternativi che sono fondamentali per il concetto di democrazia. Quello che Chimamanda Ngozi Adichie (scrittrice nigeriana contemporanea) chiama il “pericolo di un’unica storia”, non è altro che il racconto di una sola prospettiva dei fatti, di un unico punto di vista che esclude la complessità creando stereotipi.

Cosa possiamo contrapporre dunque alla dittatura degli algoritmi? Quale medium è sempre stato alla base di ogni democrazia e restituisce al soggetto passivo una condizione di attività intellettuale fatta di confronto e narrazione? Quale strumento ci permette di godere di molteplici prospettive?

Il libro, suggerisce la Gancitano.

La narrazione, secondo Byung Chul Han.

Il discorso, secondo Habermas.

Ovvero tutti parlano di molteplicità di punti di vista come reale rimedio alla dittatura della società dell’informazione. Habermas sostiene che è al pubblico di lettori ragionanti che dobbiamo la sfera del discorso pubblico. Cosa intendiamo per ‘discorso’? Il discorso, dal latino discursus, è il girovagare, l’andare in giro, il correre qua e là. Ciò significa che solo la ricerca e l’incontro con l’altro conferiscono alla mia opinione una qualità discorsiva. E qui entra in gioco anche il concetto di narrazione. Le narrazioni creano significato e identità, permettono il dialogo e lo scambio. Il libro, con i suoi personaggi e le sue storie diversissime, rimane il luogo dei paesaggi emotivi complessi, articolati e irripetibili.

Favorire la creazione di un’identità attraverso i libri è solo un modo un po’ ingenuo per suggerire che abbiamo bisogno degli altri per creare la nostra identità, quegli altri che non incontriamo più all’interno della nostra bolla algoritmica perché da questa sono esclusi. Per favorire una complessità di visioni dobbiamo uscire dalla ‘prigione digitale trasparente’, come la chiama Byung Chul Han, dal totalitarismo algoritmico senza ideologia che è alla base del regime dell’informazione. Solo allora potremo sperare di sfuggire all’atomizzazione digitale che ci rende isolati e autoreferenziali e riprendere un confronto che conduca ad un pensiero critico.







Riferimenti:
Maura Gancitano, Erotica dei sentimenti, Einaudi, 2024
Byung Chul Han, Infocrazia, Einaudi, 2023
J. Habermas, Storia e critica dell'opinione pubblica, Laterza, 2005
Chimamanda Ngozi Adichie, Il pericolo di un'unica storia, Einaudi, 2020
Eli Pariser, Il filtro. Quello che Internet ci nasconde, Il saggiatore, 2012


venerdì 1 novembre 2024

Parthenope e la morte dell'autenticità

 

Il film di Sorrentino è un puro esercizio di stile, abbellito da una maestria frutto di grande esperienza e da una fotografia impeccabile. 

Così attento alla forma ma pochissimo alla sostanza, il regista riprende un mondo di immagini belle e sensuali che non restituiscono l'autenticità dell'essere umano. Questo film ha più a che fare con il penoso bisogno di immagini di una società vuota che si lascia abbindolare da frasi ad effetto senza alcun reale significato profondo. Non c'è nulla di naturale nel film di Sorrentino, appare tutto artefatto e vuoto ma questa volta la scelta stilistica e contenutistica non sembra una critica sociale come ne 'La grande bellezza' ma fine a se stessa, priva di sensibilità reale.

Il piacere di guardare il film corrisponde al piacere di guardare una bella donna e una città meravigliosa, in cui il mare scandisce le scene e sembra l’unico modo (un po’ scontato forse), di collegare i capitoli della vita della protagonista. Parthenope è abbagliante, bella, sensuale ma non fa simpatia allo spettatore, non ha un carisma universale, piuttosto è una gattamorta, lasciva, discutibilmente ribelle, con gli occhi sempre pieni di lacrime vacue, che non commuovono chi le guarda.

Le sigarette onnipresenti in ogni scena e la Napoli radical chic del Vomero che discute dei massimi sistemi in terrazza, cliché ormai inflazionato che a mio avviso annoia un po’ lo spettatore, sono esempi di ridondanza e carenza di contenuti. 

Non c’è sostanza nel film e non è nemmeno così credibile Stefania Sandrelli che interpreta la protagonista in età adulta, vuota la sua recitazione, vuoto il messaggio.

Fa fatica lo spettatore ad immergersi nell’anima dei personaggi, come fosse un mondo plastico senza alcuna tridimensionalità. Alcune scene sembrano aggiunte dell'ultimo minuto, come i cori del Napoli calcio che sembrano non avere alcuna attinenza con il resto del film.

Il film sembra più un’accozzaglia di scene mal montate, un tentativo ossessivo di scandalizzare il pubblico attraverso un groviglio di manie e paranoie in alcuni casi maschiliste, vedi la scena dei giovani costretti a consumare un rapporto sessuale in pubblico o l’attrice caduta in disgrazia che si abbandona ad un incontro erotico con la protagonista, o anche la scena inutilmente ricorrente del bikini poggiato ad asciugare sulla sedia. 

Forse il personaggio più autentico di tutta la storia è il vescovo, interpretato magistralmente da Peppe Lanzetta, che nel suo essere ripugnante e grottesco mostra tutti i limiti dell’essere umano. Tutto il resto sa un po’ di truffa.

 


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